Riflessioni

Riflessioni / agosto 2008

E se fosse tua figlia? Che pensare del caso di Eluana Englaro, in coma da oltre 16 anni? È peccato voler dare una morte dignitosa alla persona cara quando si trova in questo stato vegetativo? Occorre accostare questi problemi con sensibilità e spiritualità non finte. Si tratta di questioni oggi molto dibattute e su cui ci si limita qui a qualche spunto di riflessione, sempre pronti a riprendere il dialogo con chi lo desideri. Come può essere peccaminoso desiderare una morte dignitosa per una persona cara che vediamo soffrire inutilmente? Forse è addirittura doveroso. Se desideriamo, per noi stessi e per il prossimo, una vita dignitosa, non si comprende per quale ragione non si dovrebbe poter avere anche una morte dignitosa. Ma ciò implica cambiamenti profondi a vari livelli. Occorre anzitutto una medicina più umana e umanizzata, che affermi sì la tecnica e la specializzazione, ma senza dimenticare la persona! senza che i reparti di rianimazione diventino centri meccanici di conservazione artificiale della vita. È sempre più evidente che oltre gli aspetti tecnici della medicina vanno considerate anche le necessità psichiche del paziente, che per molti sono anzi primarie nell’affrontare la malattia o lo stato vegetativo. Alcuni cambiamenti ci sono stati: oggi, ad esempio, è più facile rispetto a qualche anno fa curare il malato terminale con terapie antidolore. Il controllo dei processi vitali appare sempre più in mano dell’uomo e fa quindi appello alla sua responsabilità. Occorre riflettere, ripensare questa responsabilità. Già a proposito dell’inizio della vita umana si è avuta una notevole trasformazione della coscienza, dei valori e delle norme. Al punto che chi aveva respinto la regolazione artificiale delle nascite come negazione della sovranità di Dio sulla vita, si è poi dovuto accorgere che anche l’inizio della vita umana è stato affidato da Dio alla nostra responsabilità (che è cosa ben diversa dall’arbitrio). Problematico non è il progresso medico-tecnologico e sociale in sé, ma l'uso che ne facciamo. Detto con alcune domande: perché rimuoviamo la morte dalla nostra coscienza e, il più possibile, i morenti dalla nostra società? Perché evitiamo il confronto razionale col morire e con la morte? Perché viviamo come se la morte, la mia, la tua morte, non esistesse? A fronte del notevole progresso medico-tecnico, la nostra società non ha sviluppato una cultura del morire. Non è forse vero che molti hanno perduto il senso della vita e, quindi, hanno smarrito il senso del morire? Se il senso della vita e il senso della morte sono tra loro necessariamente intrecciati, allora la convinzione di fede di una vita eterna comporta conseguenze fondamentali per una vita temporale che ha senso, ma anche per un morire dotato di senso. Non sarebbe possibile che proprio questa convinzione di fede fornisca un aiuto alla rottura del tabù della morte nei medici e nei pazienti? È FACILE MORIRE? Chi impara da Gesù leggendo il Vangelo sa che la vita presente è l'anticamera della "vita con Cristo". Per chi nutre la fiducia che non si muore nell’assurdo nulla la morte resta sì squallida ma non è che un momento di passaggio. Anche da questo punto di vista, proprio chi crede nella continuità non dovrebbe attaccarsi a questa vita come all'ultima spiaggia. Anche il credente, proprio perché credente, può evitare ogni forma di accanimento terapeutico e abbandonarsi al trapasso accettandolo consapevolmente. Se il morire non è un tramonto senza senso, ma un ritorno nella casa del Padre, allora forse si può dire che: • Il medico non vedrà nella morte il suo nemico mortale. Anzi, egli è abilitato a seguire il moribondo fino alla fine. Il medico non dovrebbe vedere il processo del morire e la stessa morte come una sconfitta personale, né andarsene poco prima che giunga la morte, come la pratica clinica gli suggerisce. Occorre fare del tutto per guarire il malato, ma non per rimandare la morte in modo meccanico, spesso tra tormenti intollerabili, di qualche giorno o di qualche anno. • Una umanità applicata sarebbe così la massima medica coerente fino alla fine. E questa sarebbe una prestazione medica incomprensibile per le mutue, impagabile da parte del paziente, ma più preziosa di molti farmaci costosi. • Occorre distinguere tra ciò che tecnicamente è possibile, e ciò che ha senso ai fini del ristabilimento della intera persona umana. Un'operazione chirurgica o una terapia intensiva non possono essere fini a se stesse. Una terapia ha senso fin tanto che non porta solo a un’esistenza vegetativa, ma restituisce le funzioni fisiche e ristabilisce l’intera persona umana. La battaglia per la salute è certo sensata, ma un aiuto contro la morte, che finisce per diventare tortura è assurdo. Perché, in certe situazioni estreme, non si dovrebbe tornare a dare importanza e valore alla preghiera? Preghiera intesa non come recitazione a memoria di litanie, bensì come espressione di cuori che si rivolgono al Dio della misericordia e della vita. • Il malato dovrebbe conservare il diritto di rifiutare una cura che gli prolunghi una vita che non è tale, ma è puro stato vegetativo. Il malato, inoltre, non va relegato, posto in isolamento, ma va circondato dagli affetti familiari. Il compito verso il moribondo non si esaurisce nelle sole misure mediche, ma a queste andrebbe associato l’interessamento umano di medici, infermieri, parenti, amici. Quale enorme differenza possono fare piccole cose: una federa fresca, una diversa posizione del corpo, un infermiere premuroso, un ambiente tranquillo… Dunque, è facile morire? Oppure: è più facile morire per chi crede? Proprio no. Neppure Gesù è morto come uno stoico, senza soffrire, ma è spirato tra i tormenti, gridando a Dio il proprio abbandono. Egli ha conosciuto la nostra stessa paura, il nostro stesso tremore. E l’ha fatto per amore, per offrirci il Suo dono gratuito, il Suo modo di valutare la vita, la morte, il morire. Chi vuole vivere, deve prima morire

Torna alle riflessioni