Riflessioni

Riflessioni n. 2/ febbraio 2008

GIOVINEZZA, GIOVINEZZA... L’altro genocidio Poco più di cinque secoli fa, Lorenzo de’ Medici (morto nel 1492), apriva la sua Canzone di Bacco con i noti versi: Quant'è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! chi vuol esser lieto, sia: di doman non c'è certezza. La bellezza della gioventù celebrata a dispetto della brevità: siate felici oggi, giovani, perché il domani non è in vostro/nostro potere. C’è in queste parole un’eco flebile di quelle scritte da Salomone: «Rallegrati pure, o giovane, durante la tua adolescenza, e gioisca pure il cuore tuo durante i giorni della tua giovinezza; cammina pure nelle vie dove ti conduce il cuore e seguendo gli sguardi degli occhi tuoi; ma sappi che, per tutte queste cose, Dio ti chiamerà in giudizio» (Qoelèt, 12). In un capitolo centrale del suo recente libro L’ospite inquietante sui giovani e il nulla, il vuoto della vita, l’assenza di scopo nell’esistenza, il filosofo e psicologo Umberto Galimberti esamina l’aspetto del gesto estremo, l’omicidio per gioco o il suicidio giovanile. Ricordate Monica, la ragazzina di 16 anni, uccisa con un coltello dal fidanzatino a scuola? O l’omicidio della religiosa di Chiavenna perpetrato da tre ragazze senza movente? Ecco due casi di giovani che sono descritti in questi termini: «A me sembra che sia in corso un genocidio di cui pochi si stanno rendendo conto. A essere massacrate sono le intelligenze degli adolescenti, il bene più prezioso di ogni società che vuole distendersi verso il futuro […] La mia non è una sparata moralistica di chi rimpiange i bei tempi in cui i ragazzi leggevano tanti libri e facevano tanta politica. Io sto notando qualcosa di molto più grave, e cioè che gli adolescenti non capiscono più niente. I processi intellettivi più semplici, una elementare operazione matematica, la comprensione di una favoletta, ma anche il resoconto di un pomeriggio passato con gli amici o della trama di un film sono diventati compiti sovrumani di fronte ai quali gli adolescenti rimangono a bocca aperta, in silenzio […] Vi prego di credermi, non sono un apocalittico, sono semplicemente un testimone quotidiano di una tragedia immensa» (p.98-99). Come sfuggire a una tale tragedia? L’Autore sembra propendere per l’ascolto fiducioso dei giovani, troppo spesso inascoltati nelle loro esigenze più profonde. Inascoltati dai genitori, inascoltati a scuola. «Ascoltare non è prestare l’orecchio, è farsi condurre dalla loro (dei giovani) parola là dove conduce. Se poi, invece della parola, c’è il loro silenzio, allora ci si fa guidare da quel silenzio» (p. 102). I suggerimenti sono buoni, ma non concordiamo con l’Autore quando afferma che Dio è morto. Piuttosto bisogna dire che non c’è modo d’insegnare la fiducia ai giovani se non si è imparato ad avere fiducia. Gli sfiduciati (insegnanti, genitori, educatori, ecc.) hanno ben poca fiducia da offrire… Come assetati nel deserto, abbiamo perduto le coordinate dell’oasi dove trovare ombra e acqua sorgiva. Non vale la bella giovinezza che vive il presente temendo il futuro. Né conta una giovinezza vissuta con la spada di Damocle del giudizio divino sulla testa. È Gesù il Maestro Buono capace di donare al giovane grandi ideali e certezze, suscitando fiducia nella vita presente e futura. Gesù è il solo capace di parlare al cuore del giovane per svilupparne il carattere morale e spirituale senza ucciderne la personalità. Solo il Gesù del Vangelo è la via verso la vita piena e la felicità interiore. Ma come si può dare fiducia e insegnare la fiducia se gli educatori ignorano la Parola fiduciosa di Gesù? I bulli Qualcuno ha detto: Se uno ti percuote sulla guancia destra, porgigli anche la sinistra, cioè l’esatto opposto di quanto si pratica ogni momento nella nostra società “cristiana”. Ci si meraviglia del bullismo tra i giovani, ma si dimentica che i primi bulli in tutte le relazioni sociali sono gli adulti: bullismo nei condomìni tra inquilino e inquilino, bullismo spesso nelle relazioni tra dipendenti in fabbrica, aggressività verso le donne o anche verso i maschi, le nazioni più potenti mostrano i muscoli ai paesi emergenti, e perfino in parlamento si registrano fenomeni di intransigenza e di attacco fisico e verbale. Ci si può mai meravigliare del bullismo dei giovani? Per correggere adulti e giovani occorre recuperare un grande valore della tradizione cristiana fondata sul Nuovo Testamento: la fragilità! Ci aiuta in questo anche un bel libro del neurologo e psichiatra Vittorino Andreoli, Principia. La Caduta delle certezze che dedica una sezione all’elogio della fragilità. Da tempo prevale l’idea che per aiutare gli altri non sia necessario aver bisogno degli altri, che si debba essere forti. Nascono così le categore dei forti e dei deboli. E si sa come la forza venga manifestata nella nostra società: forza economica e fisica usate in genere per annientare il debole. Andreoli ci ricorda che la fragilità è straordinaria per aiutare i deboli, essa infatti permette di immedesimarsi in colui che si vuole aiutare. Anche chi si muove per aiutare ha bisogno di aiuto! «La fragilità è dunque la forza per aiutare: uno forte sa solo giudicare e il giudizio non è mai terapeutico», il giudizio cioè non serve per guarire né per aiutare. Andreoli applica questo principio ad ogni coppia: lui/lei, padre/figlio, madre/figlia, ecc. «Solo se io ho bisogno di te e tu hai bisogno di me, la fragilità trova forza, una forza continua che serve anche a rinnovarla e dunque a mantenerla» (p. 545). Altrimenti, se uno è forte e l’altro debole, si crea o la dipendenza o il distacco dell’uno dall’altro. Per esempio, questo è ciò che sperimentano tanti giovani quando si sposano o decidono di convivere per poi staccarsi dopo solo pochi mesi. Per fare un altro esempio, è vero che il padre ha una sua funzione verso il figlio sul piano del sostentamento economico, ma anche il padre ha bisogno del figlio sul piano psicologico-emotivo. Così il figlio ha bisogno del padre non solo per i propri bisogni economici, ma anche per avere da lui sicurezza, presenza affettiva, rispetto. Abbiamo bisogno gli uni degli altri, come insegna Gesù nel Nuovo Testamento! Nella lettera agli Efesini lo Spirito di Gesù insegna che tra discepoli di Cristo quelli che sembrano essere i deboli sono invece molto necessari affinché le relazioni tra credenti siano migliori e ottime. Chi si ritiene capo deve sapere che non può fare a meno dei piedi, e chi si considera braccio deve ricordare che ha bisogno della mano; così si legge nel Vangelo. In una certa occasione Gesù anticipa a Pietro il suo triplice rinnegamento (Luca 21). Poi però gli dice anche: «Tu, quando sarai convertito, conferma i tuoi fratelli», cioè tu negherai di conoscermi, ma ti pentirai amaramente e perciò, dopo il tuo ravvedimento, lavora per rafforzare i tuoi fratelli deboli! Pietro, che con tanta baldanza aveva promesso di difendere Gesù ad ogni costo, lo avrebbe tradito, conoscendo così la propria fragilità caratteriale. Ma solo dopo – da discepolo debole! – avrebbe potuto aiutare gli altri rafforzandoli nella loro fede. Pietro non fu mai un papa dinanzi al quale si inginocchiava il corpo diplomatico mondiale. Ma la narrazione del Nuovo Testamento attesta e conferma che fu proprio il fragile Pietro ad aiutare i suoi fratelli e ad essere da loro aiutato. Viva la fragilità!

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