IL FALSO E IL VERO
Il falso e il vero
Se la religione dev’essere cosa seria, anche oggi è fondamentale distinguere tra falso e vero
Introduzione agli incontri del 29 settembre (Siracusa), 20 ottobre (Pomezia),
27 ottobre (Aprilia), 15 dicembre (Aprilia)
Raffaello Sanzio, Isaia
Ecco una citazione che forse dovrebbe preoccupare:
I fabbricatori di idoli sono tutti vanità e le loro opere preziose non giovano a nulla; ma i loro devoti non vedono né capiscono nulla e perciò saranno coperti di vergogna. Chi è che fabbrica un dio e fonde un’immagine senza cercarne un vantaggio? Ecco, tutti i suoi seguaci saranno svergognati; gli stessi artefici non sono che uomini. Si radunino pure e si presentino tutti; saranno spaventati e confusi insieme. Il fabbro lavora il ferro di una scure, lo forgia sulle braci e gli dà forma con martelli, lo rifinisce con braccio vigoroso; soffre persino la fame, la forza gli viene meno; non beve acqua ed è spossato. Il falegname stende il regolo, disegna l''immagine col gesso; la lavora con scalpelli, misura con il compasso, riproducendo una forma umana, una bella figura d’uomo da mettere in un tempio. Egli si taglia cedri, prende un cipresso o una quercia che lascia crescere robusta nella selva; pianta un frassino che la pioggia farà crescere. Tutto ciò diventa per l’uomo legna da bruciare; ne prende una parte e si riscalda o anche accende il forno per cuocervi il pane o ne fa persino un idolo e lo adora, ne forma una statua e la venera. Una metà la brucia al fuoco, sulla brace arrostisce la carne, poi mangia l''arrosto e si sazia. Ugualmente si scalda e dice: «Mi riscaldo; mi godo il fuoco». Con il resto fa un dio, il suo idolo; lo venera, lo adora e lo prega: «Salvami, perché sei il mio dio!». Non sanno né comprendono nulla; una patina impedisce agli occhi loro di vedere e al loro cuore di capire. Essi non riflettono, non hanno conoscenza e intelligenza per dire: «Ho bruciato nel fuoco una parte, sulle sue braci ho cotto perfino il pane e arrostito la carne che ho mangiato; col residuo farò un idolo abominevole? Mi inginocchierò davanti ad un pezzo di legno?» Un tal uomo si pasce di cenere, ha un cuore illuso che lo travia; egli non sa liberarsene e dire: «Ciò che tengo in mano non è forse falso?»
Chi è mai questo scrittore che osa attaccare con tanta forza e rimproverare con tale sarcasmo quelle che da secoli sono le forme, cioè le maniere e le immagini, ormai diffuse della religione? e non solo della religione cristiana? Come può egli affermare con tanta sicurezza che le religiose “opere preziose” fabbricate dagli uomini “non giovano a nulla”? che “i loro devoti non capiscono nulla”? Perché mai la religiosità dovrebbe avere a che fare con il “vantaggio” di chi fabbrica immagini sacre? Come può questo Autore farsi beffe del “fabbro che lavora il ferro” e del “falegname che disegna l’immagine col gesso” riproducendo ad arte una “forma umana”? Come può questo scrittore ironizzare sull’uomo che usa parte di un bel ramo di frassino per accendere il fuoco per cuocere il proprio cibo e con parte dello stesso ramo “forma una statua e la venera”? E tutto ciò senza chiedersi: ma è mai possibile che io mi inginocchi davanti “ad un pezzo di legno”? Senza riuscire comprendere la differenza – perché una differenza c’è – tra falso e vero? Ed infine: è mai possibile raggiungere un tale perdita di nitidezza mentale da non saper più valutare la potenza della logica delle affermazioni di quel brano?
A queste e ad altre questioni si cercherà di rispondere nel corso degli incontri che si terranno presso varie comunità di credenti: 29 settembre (Siracusa), 20 ottobre (Pomezia), 27 ottobre (Aprilia), 15 dicembre (Aprilia). Le risposte saranno ricercate alla luce della Parola di Dio preservata nelle Scritture della Bibbia ebraica e del Nuovo Testamento. Qui possiamo solo accennarne qualcuna.
L’Autore del brano citato è Isaia (cap. 44), profeta dell’VIII secolo a. C. considerato uno dei più importanti evangelizzatori della Scrittura, insieme a Elia, Geremia, Ezechiele e Daniele. La parola tagliente di Isaia è quella di un uomo, ispirato da Dio, che ha nel nome il proprio destino. “Isaia” ha infatti lo stesso significato di Gesù, “il Signore salva” (Matteo 1,21).
Ma per salvare, il Signore – lo afferma lui stesso in Luca, citando proprio Isaia (61,1//Lc. 4,1 ss.) – deve aprire gli occhi ai ciechi (accecati da che cosa?), liberare gli oppressi (schiacciati da che cosa?), liberare i carcerati (prigionieri di che cosa?). Il problema serio per Isaia come per Gesù è la ardua difficoltà costituita dalla guarigione di chi pensa di vederci o dalla liberazione di chi pensa di essere libero e non s’avvede del proprio stato di oppressione. Problema attualissimo.
Il rapporto fra Gesù e Isaia è strettissimo, tanto è vero che Gesù cita spesso il grande profeta. È infatti Isaia che “vede” nel Cristo colui che porterà la vera luce della sapienza divina (Is. 9,1). È Isaia che anticipa in Cristo la beatitudine di colui che è umile (57,15). È sempre Isaia che profetizza la consolazione in Cristo di chi è afflitto (61,2). Gesù adotta proprio le dure parole di Isaia quando vuole rimproverare il popolo per la sua insensibilità morale e spirituale, per la sua durezza nel comprendere la Parola spirituale del Cristo (6,9). Ed è ancora a Isaia che Gesù si richiama quando commenta la fede autorevole del centurione in contrasto con la mente obnubilata di tanti fra il popolo di Dio (Is. 2,2 s.//Mt. 8,9 s.). Il silenzio di Cristo dinanzi ai suoi carnefici e gli sbeffeggiamenti da lui subiti furono anticipati proprio da Isaia (53,3-7). Per non dire dei molteplici riferimenti isaiani presenti nei ragionamenti scritturali di Paolo apostolo – ad esempio nella lettera ai Romani – come pure di Pietro, Giacomo e Giovanni.
Se dunque Gesù e i discepoli stimarono tanto Isaia da fare continui riferimenti ai suoi scritti, dovremo noi stimarlo meno o non considerarlo affatto quando il grande profeta chiama con forza a quella adorazione diversa che Gesù stesso chiamerà “in Spirito e verità”? La domanda cruciale è: che ruolo hanno le forme-immagini sacre nel culto personale e comunitario dei discepoli/discepole di Cristo? Ma questa domanda non può prescindere dall’altra questione critica: gli idoli sono solo immagini sacre oppure sono possibili anche altre forme, altri generi di idolatria, e in tal caso quali? Che dire della forma-immagine che ciascuno proietta al di fuori di sé e che talvolta è tanto differente da quella interiore, al punto che persino il bugiardo invidioso viene creduto e passa per onesto profeta, e persino il falso fa il medico delle anime? Che dire, cioè, dell’ipocrisia, della violenza, dell’ostracismo, del potere economico che bellamente vìola il regno di Dio – spesso senza che nessuno apra bocca, anzi! Che dire della malignità, della maldicenza, dell’inadempienza, della pigrizia, del personalismo che accentra e divide, del bieco settarismo… quanti idoli nel tempio di Dio ridotto a mercato! Idoli così spesso venerati da chiese, gruppi e congreghe. Forse anzi, a ben vedere, questi idoli sono così attivi da far quasi (quasi) ridimensionare e sminuire l’idolatria degli idoli di gesso e legno lamentata dall’ardito Isaia. È dunque mai possibile ritrovare il popolo dei mansueti “beati”, predicato da Isaia e voluto da Gesù? Dov’è oggi il popolo dei liberati, dei guariti dalla grazia di Cristo? Ammesso che ancora si sappia che cosa sia “grazia” e non la si confonda con graziose amicizie convenienti, amabili rinfreschi, amicali buffet, cordiali quanto banali apericena e simili.
Ri-leggere Isaia significa dunque godere del privilegio di ascoltare il Dante della poesia ebraica che frantuma con maglio divino tutte le attraenti idolatrie degli uomini – tutte, nessuna esclusa. Isaia, come Gesù, non è il genere di medico pietoso che fa la piaga purulenta.
Piccola bibliografia:
G. Ravasi, I profeti, Milano, 1998.
E. Cortese, Le tradizioni storiche di Israele, Bologna, 2001.
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Roberto Tondelli
(Libertà Sicilia, 09 2019)
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