Riflessioni

DIGNITA'' E DIRITTO

Dignità e diritto di chi lavora Ma che ne sa Gesù di lavoro e di salario? Chi sono e quanti sono i lavoratori che dipendono da ditte, cooperative, enti che ritardano il pagamento degli stipendi talvolta anche per mesi? Vediamo in breve “chi sono”. Sono mariti/padri, mogli/madri, figli e figlie adulti, che debbono vivere ogni giorno, pagare fatture, affitto o mutuo, mangiare, soddisfare alle necessità primarie dell’esistenza. Ritardi nella percepire lo stipendio causano spesso problemi enormi, forti preoccupazioni, bassa qualità della vita. Si evita qui di proposito ogni cattivo pensiero sulla eventualità che qualcuno, da qualche parte, possa trarre vantaggi da una simile situazione... È pur vero che talvolta aziende, cooperative o enti ritardano nell’erogare stipendi perché, a loro volta, non ricevono i pagamenti dovuti per i servizi resi in ambito privato o pubblico. Si genera così una situazione in cui, per così dire, il serpente si morde la coda. Se una tale condizione economica si diffonde nelle varie regioni (come sempre, più al sud che al nord o al centro Italia) si arriva rapidamente allo stallo del Paese, alla situazione di recessione che è ormai notizia quotidiana. Senza pretesa, né possibilità, di proporre qui soluzioni a questo problema, è però evidente che la questione non si risolve volgendosi indietro a quando le grandi opere pubbliche di Cesare Ottaviano o di re Dionigi risolvevano il problema del lavoro, e quindi del salario dei lavoratori. Il governo della Repubblica “fondata sul lavoro”, qualunque sia la sua leadership, deve darsi lo scopo primario di favorire le condizioni di lavoro e di salario ai cittadini. In questa pagina si può però richiamare qualche criterio biblico in merito. Nell’evangelo di Matteo Gesù invia gli apostoli ad annunciare che Dio regna – al di sopra dei potenti e dei governi umani. I discepoli vanno ad annunciare l’evangelo del regno, fanno portenti e sono ospitati da famiglie degne della pace di Dio, perché “l’operaio ha diritto alla sua paga” (si noti la parola “diritto” Matteo 10,10). Analogamente, quando Gesù manda settanta discepoli a preparargli la strada nei villaggi dove poi lui stesso andrà a insegnare, dice: quando sarete ospitati in un casa, mangiate presso di loro “perché l’operaio è degno del suo salario”(si noti la parola “degno” Luca 10,7). In entrambi i brani di Matteo e Luca, pur trattandosi di evangelizzazione, Gesù cita una norma salariale ben nota in Palestina e scritta nella Legge ebraica: “Non metterai la museruola al bue che trebbia il grano” (Deut. 25,4). Prima di commentare questa frase, ci si può chiedere che cosa mai ne sapesse Gesù di lavoro e di salario. In genere si ha si lui un’immagine “santificata”, come di un maestro, un guru, un taumaturgo, forse uno con la testa un po’ fra le nuvole, lontano dalla vita pratica. La realtà è ben diversa. Si può dimostrare (sociologia biblica) che per anni Gesù lavorò come carpentiere. Prima con Giuseppe, suo padre, poi coi suoi fratelli (Giacomo, Giuseppe, Simone, Giuda), Gesù lavorò nei grossi cantieri aperti dai Romani per i lavori pubblici nella città di Sefforis, capitale della Galilea, a soli 6 chilometri da Nazaret. Ancor oggi sono là visibili “domus” romane, edifici monumentali, un grande teatro e abitazioni civili, tutte opere per costruire le quali era necessaria manodopera, anche manodopera specializzata nella carpenteria del legno. Prima di iniziare la sua missione pubblica, Gesù rimase a casa propria per circa 27 anni, durante i quali certamente contribuì al sostentamento del gruppo famigliare lavorando con le sue mani. Gesù, dunque, sapeva bene che cosa fosse il lavoro manuale e la norma legale della Scrittura che dice: “Non metterai la museruola al bue che trebbia”, il che vuol dire “Il lavoratore ha diritto al suo salario” (1 Timoteo 5,18 + Deut. 25,4). Ritorna qui, e va sottolineata, la parola “diritto al salario”. Quando Paolo apostolo, ispirato da Dio, commenta questa stessa frase, scrive: “Nella legge di Mosè è scritto: «Non mettere la museruola al bue che trebbia il grano». Forse che Dio si dà pensiero dei buoi? O non dice così proprio PER NOI? Certo, per noi fu scritto così; perché chi ara deve arare con SPERANZA e chi trebbia il grano deve trebbiarlo con la speranza di averne la SUA PARTE”(1 Corinzi 9,9). Parole molto chiare, per chi vuol capire. Come si è detto sopra, chi fa il proprio dovere lavorando, ha il “diritto” alla propria paga. Il lavoro, remunerato con il salario, dona al lavoratore “dignità”. È questa, appunto, la dignità del lavoro, del servizio ben fatto, dell’opera (manuale o concettuale) attuata secondo criteri che ne fanno un’opera positiva. Positiva per la persona che lavora e per la società. Tale opera va ap/prezzata, cioè ha un suo prezzo e, perciò, va pagata con giusto stipendio. Sembrerà banale dirlo, ma visti i tempi forse non è poi così ovvio ripetere che il lavoratore campa con il proprio onesto lavoro e onesto stipendio. È un diritto ed è anche una questione di dignità. A chi lavora non bisogna togliere né dignità né stipendio. È un diritto sancito da Cristo e, come lui dice, chi ha orecchi oda. © Riproduzione riservata Roberto Tondelli – 03 2019

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