Riflessioni

Noè di oggi

Noè di oggi L’antitesi è la porta stretta per la quale l’errore si insinua più volentieri fino alla verità (F. Nietzsche, Umano, troppo umano) La logica convenzionale vuole che la costruzione di un’imbarcazione immensa in località montana sia un’azione fra le più bizzarre che un uomo possa realizzare, un evidente errore, estrema antitesi della razionalità, come ricorda Nietzsche. Eppure tale costruzione apparentemente illogica si manifesterà come verità inesorabile. Gesù infatti, evocando Noè, profetizzò: Come avvenne al tempo di Noè, così sarà nei giorni del Figlio dell’uomo: mangiavano, bevevano, si ammogliavano e si maritavano, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca e venne il diluvio e li fece perire tutti. Come avvenne anche al tempo di Lot: mangiavano, bevevano, compravano, vendevano, piantavano, costruivano; ma nel giorno in cui Lot uscì da Sodoma piovve fuoco e zolfo dal cielo e li fece perire tutti. Così sarà nel giorno in cui il Figlio dell’uomo si rivelerà. In quel giorno, chi si troverà sulla terrazza, se le sue cose sono in casa, non scenda a prenderle; così chi si troverà nel campo, non torni indietro. Ricordatevi della moglie di Lot. Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà (Lc 17,26 ss.). Il monito profetico del Signore emerge dalla sua diretta constatazione della condizione umana, da lui condivisa fino alla morte sulla croce (Ef 3,17; Col 2,7). Nella sua esperienza terrena egli osservò una umanità intenta prioritariamente alle solite cose, con gli affanni di sempre per i molti, o senza troppi pensieri per i pochissimi, esattamente come accadeva al tempo di Noè. È chiaro che non c’è nulla di male nel pensare al mangiare, bere e a volersi sposare e, a maggior ragione, a voler lavorare: “compravano, vendevano, piantavano, costruivano”. Ma quando queste attività costituiscono il tutto – o quasi – della vita di una persona, allora il pericolo è che ci si ridimensioni esclusivamente nella misera materialità terrena, tralasciando di curare la natura spirituale della propria esistenza, il DNA di Dio, la nostra parte migliore e più elevata, quella che ci fa somigliare a Dio (Gen 1,27; Ecc 3,11). Tale somiglianza riguarda lo spirito che anima corpo, psiche, pensiero, visione, scala di valori della vita, non la mera somiglianza fra genitori e figli. Alimentazione, riproduzione biologica, lavoro, rappresenterebbero dunque la routine a cui è sottoposta la gran parte della gente, routine da cui è difficile uscire non solo per lo stato di necessità cui si è costretti, ma anche per pigrizia mentale, come se occuparsi della Bibbia e praticare la Parola del Signore in funzione dell’eternità fossero occupazioni accessorie, di secondaria importanza per l’igiene della propria vita morale, valutate come intralci, inutile lusso rispetto alle preoccupazioni della vita concreta! Il banale pensiero comune dominante sembra: penso prima a questa vita; poi per l’altra si vedrà. È questa una delle affermazioni più frequenti fatte per rinviare a tempo indeterminato l’incontro con Dio. Altre scusanti le troviamo nella parabola delle nozze (Mt 22,1 ss.; Lc 14,16 ss.) e, rivisitate, non sono diverse da quelle attuali. Anche oggi, una persona che studia le Sacre Scritture sembra diversa, se non bizzarra o addirittura fuori dal mondo, soprattutto se non appartiene alla casta clericale, come suggerisce l’immaginario sociale. Mi piace invece accostare la condizione particolare di chi si mette a riflettere sulla parola del Signore (Sal 1,1 ss) alla situazione di Noè nella fase iniziale della costruzione dell’arca, quando tutti gli altri continuavano a vivere imperterriti nella solita routine. Proviamo a immaginare lo stupore generale, l’immancabile sarcasmo e la probabile, affrettata diagnosi di pazzia. La gente dimentica volentieri che la pazzia di Dio è più saggia degli uomini (1 Cor 1,23 s.). “Come avvenne al tempo di Noè...” Notiamo che la profezia di Gesù può racchiudere alcuni significati. L’arca fu strumento di salvezza, come lo è il Cristo che raduna il suo popolo nuovo, la chiesa. Il diluvio fu da una parte un giudizio divino, ma dall’altra fu acqua salvifica, modello dell’immersione in Cristo (battesimo, 1 Pt 3,21; Rom 6,1ss). Noè fu “predicatore di giustizia”, come lo fu Cristo stesso (2 Pt 2,5). Si può fare un passo ulteriore notando il rapporto fra Dio e coloro che si considerano gli attuali Noè, cioè gli attuali predicatori. Qui il punto discriminante diventa questo: in che misura si osserva il modello da seguire? Dice la Scrittura: Noè fece esattamente tutto ciò che Dio gli aveva comandato (Gen 6,22). Noè – come dovremmo fare noi pure – ubbidì alla Parola del Signore (Eb 11,7). Così fecero Abramo, Cristo, Paolo (Eb 11,8; Fil 2,5 ss.; 1 Cor 11,1). È evidente che l’ubbidienza (2 Gv 1,6) è il metodo biblico con cui ci si assume la responsabilità di fronte a Dio di applicare le istruzioni per la salvezza nel “corpo unico” in Cristo (Ef 4,1ss). Ne nasce una prima domanda: come mai troviamo tanti diversi Noè/predicatori e tante chiese diverse, dedicate a Cristo o ai santi, e le più svariate denominazioni? Seconda domanda: forse la responsabilità finale non è esclusiva del Noè/predicatore (1 Cor 3,6 ss.) ma anche di coloro che non verificano bene la fonte delle informazioni ricevute? Terza domanda: forse non è più necessario discriminare fra ciò che “viene da Dio e ciò che viene dagli uomini” (Lc 20,4)? Non è forse più vero che se uno predica un Evangelo diverso deve essere considerato “anatema” (Gal 1,8)? È ragionevole dubitare che di fronte al giusto giudizio di Dio valga il principio dello scarica barile, così comodo per chi addossa la colpa delle diversità religiose al Noè di turno e non si assume la responsabilità personale di una sana verifica critica. © Riproduzione riservata M. Santopietro – 05 2017

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