Riflessioni

Paolo e le femmine

Paolo apostolo e le femmine Non le frasi, o le mezze frasi, di Paolo stanno all’origine della violenza di genere, bensì l’ignoranza dell’Evangelo di Cristo e del testo biblico in generale Un diffuso luogo comune, che provoca purtroppo grossi malintesi, è che Paolo apostolo fosse un misogino, cioè un maschilista, uno che provava avversione e repulsione per le femmine. Chi si lascia fuorviare da questo luogo comune lo fa in genere sulla base di frasi, o mezze frasi, estrapolate dai suoi scritti. È noto che l’apostolo scrisse ben tredici (forse quattordici) lettere del Nuovo Testamento avendo una chiara comprensione di scrivere per ispirazione di Dio. Perciò, chi lo considera un misogino per aver scritto ad esempio “le donne tacciano nelle assemblee” oppure “Adamo non fu sedotto, ma fu sedotta Eva”, ne conclude che egli non fu certo ispirato da Dio, e che i suoi scritti sono, appunto, espressioni da vecchio maschilista. Gli scritti biblici purtroppo non godono in Italia di grande autorevolezza. È strano perciò che per difendere valide tesi contro la violenza di genere si senta la necessità di chiamare in causa espressioni di Paolo, citate quasi sempre fuori del loro contesto. A questo errore, grave di per sé, se ne aggiunge spesso un altro. Si condannano – giustamente – i secolari e attuali comportamenti maschilisti (inaccettabili violenze e offese verso le femmine), andandone però a cercare retrospettivamente le cause nelle frasi di Paolo. Questo modo di leggere i suoi scritti è erroneo, fuorviante, ed è analogo al procedimento – frequentissimo – di coloro che prima inventano una dottrina o adottano una prassi tradizionale religiosa e poi vanno al testo biblico per cercare la “pezza d’appoggio” che avalli quella dottrina o prassi. Se i maschi avessero invece un poco più di familiarità con il testo biblico, forse da ciò potrebbe scaturire quella fede nel Cristo che ne cambierebbe gli atteggiamenti violenti e offensivi; e le femmine capirebbero che non le frasi di Paolo apostolo stanno all’origine della violenza di genere, bensì proprio l’ignoranza dell’Evangelo di Cristo e del testo biblico in generale. Per commentare in breve le frasi paoline incriminate, e senza pretendere di essere esaustivi, la prima frase (“le donne tacciano nelle assemblee”) si spiega considerando la situazione di assoluta confusione che regnava nella comunità corinzia (1 Cor 14,34). Tanto è vero che nello stesso contesto si dice pure che i maschi stessi debbono tacere. La frase sulla seduzione di Eva (1 Tim 2,13) si spiega invece, probabilmente, con le prime tendenze gnostiche che cercavano di penetrare fra i cristiani, tendenze che, tra l’altro, mostravano disprezzo per l’unione, in sé buona, tra maschio e femmina. Ma al di là delle frasi, ciò che più conta è come Paolo apostolo si pose nei confronti delle femmine, come ne parlò e come le trattò. Il suo stesso comportamento verso di loro dice infatti la considerazione che ne ebbe. All’interno del medesimo contesto, l’ultimo capitolo della lettera ai Romani, egli menziona, lodandole con convinzione, numerose discepole di Cristo: Febe “diacono” (diakonos, it. servitore, servitrice) della comunità di Cencrea e colei che “ha prestato assistenza” (prostatis) a molti e a Paolo stesso; Priscilla (o Prisca) intraprendente collaboratrice (synergos) di Paolo e femmina coraggiosa che, con suo marito Aquila, aveva rischiato la vita per salvare l’apostolo; Maria, Trifena, Trifosa e Perside che si affaticano (kopiōsai) nel Signore; Giunia/Iunia, femmina coraggiosa, credente della prima ora, che Paolo chiama tranquillamente “apostola” (apostolos, it. inviata, inviato). Nel capitolo finale dell’epistola scritta alla comunità di Filippi, Paolo menziona Evodia e Sintiche come sue conbelligeranti (synēthlēsan) e collaboratrici (synergoi). Ecco dunque nove operaie dell’Evangelo le quali hanno incontrato Paolo lungo la loro via e che con sofferenza, generosità e dedizione, lo hanno aiutato in un servizio di evangelizzazione, insegnamento e assistenza. Paolo apostolo ha predicato e insegnato molto, oralmente e per scritto. Ma di tutte le sue frasi, quella che viene citata di rado è questa: “Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati immersi (battezzati) in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più maschio né femmina, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,26 ss.). Se un maschio è davvero convertito a Cristo, si rende conto che il suo “debito” preciso verso le femmine (prossimo) è proprio l’amore inteso come rispetto, senso di responsabilità, considerazione, stima. Un tale amore è il solo “debito” (Rom 13,8) che un maschio deve avere anche verso la femmina: bambina, ragazza, fidanzata, compagna di scuola, conoscente, madre, moglie, collega di lavoro, etc. Uno dei motivi per i quali la persona di Maria di Nazaret è stata esaltata nel corso dei secoli – talvolta anche ben al di là di ciò che attestano le Scritture ispirate da Dio – è che si intendeva educare la mentalità maschile al rispetto verso la “ma/donna”, cioè la “mia donna”. Purtroppo, se la mentalità non cambia profondamente per una vera e genuina e intima adesione al Cristo Gesù dell’Evangelo, la violenza di genere non diminuirà. Solo un deciso ritorno a Cristo Gesù potrà cambiare davvero la mente, i sentimenti, gli atteggiamenti, i comportamenti dei maschi facendone prima uomini e poi santi, cioè cristiani veri. Le battaglie contro la violenza di genere sono buone e doverose. Avrebbero tutto da guadagnare da una maggiore consapevolezza e informazione di quanto l’Evangelo realmente attesta e autorevolmente insegna. © Riproduzione riservata Roberto Tondelli – 03 2017 Piccola bibliografia: Marco Adinolfi, Il femminismo della Bibbia, Roma, 1981. Hans Küng, La donna nel cristianesimo, Brescia, 2005. Fausto Salvoni, Gesù Cristo II, Milano, 1970/1971.

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