Manualetto degli increduli
Roberto Tondelli
Manualetto degli increduli
Ovvero: istruzioni per perdere la fede
Biblica 6
Io credo. Aiutami nella mia incredulità.
(Marco 9,24; ed. Utet)
Avvertenza: ove non diversamente indicato, le citazioni bibliche sono tratte dalla Versione Riveduta.
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chiesa di Cristo - largo G. Mameli, 16A - 00040 Pomezia-Roma (RM)
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Manualetto degli increduli. Ovvero: istruzioni per perdere la fede.
© Proprietà letteraria riservata – Roberto Tondelli, marzo 2009
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ROMA, 2009
Manualetto degli increduli
Ovvero: istruzioni per perdere la fede
Molti ritengono che saper credere sia come saper andare in bicicletta o saper nuotare, una volta imparato non lo si dimentica più. Non è così; e poi, anche per andare in bicicletta o per nuotare occorre allenamento costante. La fiducia in Dio non è neppure come un dato acquisito della mente; credere in Dio non è come credere che esiste l’Amazzonia. Non è vero che una volta appresa la fiducia in Gesù non la si possa più perdere. La Bibbia presenta molti esempi di persone che, avendo imparato a confidare in Dio in un certo periodo della loro vita, hanno poi tradito quella fiducia in un momento successivo. Il Salomone saggio e giudizioso che in gioventù confidava nell’Eterno, da vecchio fu uno stolto idolatra. No, la fede non è davvero un elemento che una volta acquisito possa esser considerato imperdibile. La si può perdere eccome!
Una premessa importante. Qui per fede non si intende quel mero sentimento, comune a molti, che porta la persona a vagheggiare che ci sia un essere superiore... Per fede intendiamo qui, secondo la definizione biblica, la fede-fiduciosa-che-ubbidisce alla Parola di Dio. Anzi si consiglia vivamente di non proseguire la lettura di questo studio senza aver prima letto e meditato il brano principe che riguarda la fede genuina secondo il Nuovo Testamento, cioè il capitolo 11 della lettera agli Ebrei. La fede fiduciosa è concreta, efficace, ascolta, conosce, apprezza, ama, ubbidisce con prontezza alla parola divina.
Come si impara a credere? Cioè, come si impara a fidarsi di quel Dio che ci si presenta mediante il Suo inviato particolare Cristo Gesù? Occorre ascoltarne la Parola. In genere le persone che hanno creduto hanno dedicato tempo e riflessione alla Parola, parlandone con chi li ha istruiti e ha annunciato loro il Vangelo. Può trascorrere qualche giorno o qualche tempo, ma per imparare la fede occorre dare ascolto, umilmente, alla Parola di Dio presentata nel Nuovo Testamento, tenendo nel debito conto anche la Bibbia ebraica (Antico Testamento).
Ma la fede la si può perdere. E non è neppure così difficile perderla. Recenti esperienze hanno suggerito le considerazioni qui esposte in modo semplice, senza approfondirle come invece ci si propone di fare in sede di insegnamento con quanti vorranno insieme valutare e scavare nei meandri dell’animo umano, là dove solo la lampada della Parola di Dio può portare luce e gioia anche in situazioni di dolore e morte.
Istruzioni per perdere la fede
Chi ha scelto il compito arduo ma sublime di proporre il Vangelo, per non arrendersi alla folle insensibilità del mondo, deve pure in qualche modo cercare di sublimare le pesanti frustrazioni provocate da credenti che senza motivo decidono di suicidarsi moralmente. Ogni genere di suicidio lascia perplessi: perché l’avrà fatto? Che cosa l’ha spinto? Come è potuto accadere? Queste domande si ripropongono anche nel caso del suicidio morale/spirituale. E dato che anche questo tipo di suicidio lascia l’amaro in bocca e la tristezza in cuore, si è deciso qui di aderire a una modesta forma di deregulation. Una volta tanto, cioè, invece di proporre le istruzioni per acquisire la fede fiduciosa nel Padre, si andrà alla ricerca del contrario, vale a dire delle modalità e dei comportamenti utili a perdere la fiducia.
Vedremo che non sono le esperienze negative a suggerire direttamente le possibili istruzioni per un sicuro smarrimento della fede. È piuttosto la stessa Parola del Signore che, riesaminata dopo esperienze funeste, mostra i vari modi – ne vedremo alcuni – in cui si può purtroppo attuare quel suicidio spirituale che consiste nella perdita della fede.
1 / Dimenticare
Un primo modo certo per perdere la fede è dimenticare di essere stati mondati dei «propri vecchi peccati» (2 Pt. 1,9). La fiducia, come l’amore, è un orticello che va curato ogni giorno. Il bravo contadino lavora quotidianamente nel proprio orto. Analogamente il credente ricorda sempre che la potenza di Dio gli ha garantito la partecipazione alla natura stessa di Dio (1 Pt. 1,3-4). Per questo lavora con premura sapendo di avere una ragione validissima per
aggiungere alla fede la virtù; alla virtù la conoscenza; alla conoscenza la continenza; alla continenza la pazienza; alla pazienza la pietà; alla pietà l''amore fraterno; e all''amore fraterno la carità (2 Pt. 1,5 ss.).
Una volta interrate le piantine di pomodoro, occorre innaffiarle costantemente. Quando iniziano a crescere, bisogna conficcare tre canne nel terreno intorno a ogni piantina, unendole in cima; così la pianta, crescendo, vi si avviluppa attorno, si sviluppa bene e i preziosi frutti pendono dai rami senza toccare terra. Analogamente, nel nostro orticello interiore occorre aggiungere per esempio alla conoscenza-per-esperienza l’autocontrollo (continenza) nel pensare, nel parlare e nell''agire; bisogna poi anche seguire gli impulsi dello Spirito di Cristo all’amore fraterno e alla pazienza nelle prove che la vita ci presenta. Se il contadino dimentica di innaffiare bene le piantine, queste muoiono. Così muore la fede se ci dimentichiamo di praticare virtù e amore, conoscenza e autocontrollo, pazienza e religiosità e amore fraterno.
Una delle parole più importanti dell’intero vocabolario biblico è «memoria». La fede è anche una questione di memoria. Memoria di sé, memoria di chi si era prima di conoscere il Signore e memoria di ciò che egli ci ha fatto diventare poi:
Eravate servi del peccato, ma avete di cuore ubbidito a quel tenore d''insegnamento che vi è stato trasmesso... avete prestato le vostre membra al servizio dell’impurità e dell''iniquità per commettere l’iniquità, così prestate ora le vostre membra a servizio della giustizia per la vostra santificazione (Rom. 6,17).
Si noti qui il contrasto radicale tra il passato di queste persone, un tempo schiave del male, e il loro presente come liberi in Cristo (Rom. 6,22). Molti credenti, anche discepoli e discepole di lunga data, perdono la fede perché dimenticano da quale buco maleodorante Dio li ha tratti fuori il giorno in cui li ha chiamati mediante il Vangelo. Dimenticano che Gesù è morto ammazzato per loro quando erano ancora stolti agnostici o superstiziosi o egocentrici o avidi o superficiali o svampiti o persone finte. Dimenticano tutto ciò che il Padre ha fatto per loro quando erano assolutamente «senza speranza» nel mondo, cioè in condizioni disperate (Ef. 2,12b). Dimenticano che un tempo erano del tutto incapaci di ragionare sobriamente, quando la loro intelligenza era ottenebrata e ignorante (Ef. 4,18), a causa dell’assenza di Dio nella loro vita quotidiana. In altri termini, dimenticano che Dio li ha amati per primo.
Ma c’è di più. Questi discepoli (indegni di tale qualifica) dimenticano ciò che hanno ricevuto da fratelli e sorelle: cura e conforto nelle malattie; consigli quando un loro figlio era malato; insegnamenti biblici per loro, per i loro figli e figlie; corse negli ospedali quando insorgeva una necessità; e poi tutte quelle attenzioni e premure che hanno significato sentimenti buoni e degni che altri hanno avuto per loro. Chi dimentica è un ingrato egoista superficiale. A un tipo del genere le attenzioni non bastano mai. Ma anche ammesso che le cure di fratelli e sorelle verso di lui/lei fossero del tutto mancanti, rimarrebbero pur sempre l’amore e la giustificazione e la grazia e la bontà e la misericordia che Dio Padre ha verso di lui/lei. Eppure tutto ciò non basta. Tutto questo non è apprezzato da chi ha la memoria corta. Per questo perde la fiducia sia in Dio sia negli uomini. Tradisce la grazia di Dio. Abbandona la chiesa di Dio. Torna finalmente a respirare l’aria della libertà. E non si accorge che è un’aria infernale, nel senso stretto del termine.
2 / Disprezzare gli altri
Si perde la fiducia in Dio anche quando la si perde negli altri discepoli, cioè quando si incomincia a disprezzare gli altri. E si incomincia a disprezzare gli altri quando ci si sente talmente superiori a loro... Facciamo un esempio di lieve importanza – ma spesso dalle piccole cose dipendono le grandi. Può esserci nella chiesa un fratello che ama fare domande su ogni argomento (talvolta magari anche un po’ al limite di ciò che è ragionevole chiedersi, ma non importa). C’è un altro che non ha molte domande da fare. Entrambi possono benissimo convivere assieme nella comunità e servire il Signore. Succede però che chi ama porre domande incominci in cuor suo a non vedere di buon occhio coloro che non hanno mai tante domande da porre, persone per le quali una parola o una spiegazione bastano. Ma il primo incomincia pian piano a nutrire un senso di vaga noia per gli altri, più semplici di lui/lei: «Ma come mai nessuno ha mai niente da dire?» Può succedere però che anche gli altri comincino a nutrire un senso di noia per interventi talvolta fuori luogo. Questi atteggiamenti, alla lunga, si mutano in vero e proprio disprezzo gli uni per gli altri. E si dimentica purtroppo che l’uno e l’altro sono stati «accolti da Dio» (Rom. 14,3)! Lo Spirito di Dio suggerisce che non bisogna disprezzarsi, ma piuttosto apprezzare la semplicità degli uni e l’interesse degli altri, il tutto in un clima di reciproca umiltà.
Si disprezzano gli altri quando non li si ascolta più. E non li si ascolta più perché ci si ritiene talmente al di sopra di loro... talmente superiori da non cambiare atteggiamento neppure di fronte alle lacrime e al dolore causati agli altri. Chi disprezza, ben difficilmente fa caso al dolore e alle lacrime altrui. Chi non ascolta i discepoli che gli parlano e che vede, non potrà mai ascoltare Dio che gli parla nella Scrittura e che egli non vede. In questo modo dimostra davvero di aver perduto la fede. Si può arrivare a disprezzare gli altri al punto da non ascoltarli neppure quando ci invitano a ravvederci, a riconsiderare le nostre idee e azioni. Mentre quelli parlano addolorati, gli occhi di chi si tura le orecchie restano di ghiaccio, insensibili al suono e al senso delle parole, le orecchie e il cuore foderati della stoppa del disprezzo. Nulla vi penetra, perché il senso stesso della fede è perduto.
Si disprezzano gli altri quando li si giudica incapaci di aiutare. Immaginate un cristiano che dica: «Quando sarò vecchio e solo, chi penserà a me? Ci penseranno forse i fratelli? Figuriamoci!» Espressioni come questa sono una bestemmia sul labbro di chi si dice discepolo di Gesù. Sono espressione di una fede moribonda. Molte comunità di credenti hanno ormai imparato a farsi carico delle necessità spirituali-e-materiali (le due cose vanno assieme, sempre biblicamente e mai per puri scopi sociali ) di sorelle o fratelli in stato di necessità. Pertanto, esprimere dubbi su ciò che gli altri potranno o non potranno fare significa davvero seminare la zizzania dello scetticismo, è segno di poca fede, anzi forse di una fede ormai perduta. Il credente confida invece nel Padre, sapendo che prima viene il reame e la giustizia di Dio, e ogni altra cosa sarà data in sovrappiù (Mt. 6,33 s.). Prima viene la chiesa, poi vengono i parenti. Prima la fede vitale, poi il cibo. Prima gli incontri della comunità, poi gli altri interessi. Prima l’opera del Signore, poi tutto il resto. Ma l’atteggiamento sprezzante è segno di una perdita di fiducia. E con la perdita della fede, si determina la morte.
3 / Ignoranza, instabilità, intellettualismo
Si perde la fede quando ci si lascia avviluppare dall’ignoranza. Pietro, ispirato da Dio, ricorda che gli uomini «ignoranti e instabili» contorcono a loro perdizione sia le cose difficili da capire contenute in alcune epistole, sia le altre Scritture, cioè le cose semplici (2 Pt. 3,16). È chiaro che quando si incomincia a storpiare brani complessi del testo biblico, si è poi costretti a diventare cervellotici anche con i brani più semplici e piani delle Scritture. Lo stesso accade quando ci si accosta al testo biblico con idee preconcette: vi si trova qualsiasi cosa uno voglia trovare; ma è il preconcetto a dominare, non il testo biblico a parlare!
Qualche esempio basterà a chiarire il concetto. Il libro dell''Apocalisse, scritto da Giovanni durante la prigionia a Patmos, è un testo che presenta il linguaggio particolare, tipico della letteratura apocalittica. Si presenta non come una narrazione o un ragionamento, bensì come una pinacoteca. Ispirato dal Signore, Giovanni conduce il lettore lungo gallerie e saloni sterminati dove sono esposte le immense scene cosmiche che illustra. Chi però si avvicina al testo giovanneo ritenendolo l’orologio della storia umana, penserà di identificare le varie immagini di bestie e creature con Napoleone, Hitler, o l’ONU (!). È evidente ad ogni lettore attento che l’unico criterio che presiede a una simile lettura è la più sfrenata fantasia umana, e il risultato è quello del preconcetto, non del testo della Scrittura.
La Bibbia non insegna la metempsicosi (reincarnazione) come mezzo di salvezza dell’uomo. Molti anni fa parlai a lungo di questo argomento con un caro amico, il matematico G. Catalano, convinto che la metempsicosi fosse una realtà. Un suo zio aveva lasciato un diario che conservava le memorie di quando, migliaia d’anni prima, era stato un sacerdote egizio. Mi fece notare pure che la reincarnazione sarebbe menzionata nella Bibbia in quei brani dove la gente prende Gesù per Elia o Geremia o uno dei profeti, o in altri passi dove Gesù stesso afferma che Giovanni il Battezzatore era «l’Elia che doveva venire».
Esaminiamo brevemente i testi. Il brano di Matteo 16,14 vuole semplicemente intendere che le persone attribuivano a Gesù lo spirito di uno dei grandi profeti, quali Elia o Geremia. Nella Bibbia, quel che conta è proprio lo spirito che muove il profeta nella sua missione, ecco perché Eliseo chiese di ricevere una «parte doppia» dello spirito che aveva Elia. Gli ebrei che osservano le grandi opere di Gesù ritengono che egli abbia lo spirito di uno dei massimi profeti. Sbagliano, perché Gesù di Nazaret non è soltanto un profeta, ma lo stesso Figlio del Dio vivente, come ben riconosce Pietro. Giovanni riferirà la medesima realtà con altre parole, molto espressive, dicendo che «a colui che Dio ha mandato, Dio gli dona lo spirito senza misura»; ciò significa che lo spirito che muove Gesù è smisurato, infinitamente superiore a quello di Elia, Geremia o altri profeti. Ecco perché egli è il Cristo di Dio. Nessuna metempsicosi, ma spirito di Dio!
Nel passo di Matteo 11,14 Gesù non fa che ricordare agli ebrei che Giovanni il Battezzatore aveva adempiuto la famosa (ma forse trascurata) profezia di Malachia (3,1; 4,5), secondo la quale il Messia-Cristo sarebbe stato preceduto da un precursore che avrebbe preparato il popolo alla rivelazione del Figlio di Dio. Come si vede, la Bibbia spiega se stessa, senza bisogno di ricorrere a concezioni ad essa estranee. Di più, se il ciclo della metempsicosi fosse un mezzo per la salvezza della persona umana, vorrebbe dire che l’uomo è in grado di salvare se stesso mediante la reincarnazione in molte vite, per migliaia di anni, fino al raggiungimento della perfezione morale/spirituale. Ciò renderebbe del tutto inutile la venuta del Cristo, il suo insegnamento e soprattutto la sua stessa morte-e-resurrezione. Ciò è assurdo. Tutto il Nuovo Testamento (p. es. la lettera ai Romani o ai Galati) insegna che l’uomo non è in grado di salvare se stesso, che ha un bisogno estremo di riconciliarsi col Padre mediante Cristo Gesù, che col suo sacrificio fatto «una volta per sempre» Cristo ha acquistato una «redenzione eterna» (Ebr. 7,27; 9,12), che con la sua «unica offerta» Cristo «ha per sempre resi perfetti quelli che sono santificati», cioè perdonati (Ebr. 10,14 ss.), che la giustificazione di Dio si ottiene «gratuitamente per la sua grazia, mediante la liberazione che è in Cristo Gesù» (Rom. 3,24). Se la metempsicosi fosse vera, la grazia di Dio in Cristo sarebbe inutile, come sarebbe inutile la predicazione del Vangelo; e la «buona notizia» di salvezza in Cristo Gesù diventerebbe una farsa. Questa conclusione aberrante dimostra l’erroneità della premessa, cioè del preconcetto da cui si era partiti.
Tali sono i tristi risultati cui si giunge quando ci si accosta al testo biblico con un preconcetto. La Scrittura viene distorta sia nei suoi brani più complessi sia nei passi più semplici. Il preconcetto, frutto di ignoranza, è un pessimo consigliere nel leggere la Bibbia. I primi scrittori cristiani affermavano giustamente che le cose necessarie alla salvezza sono alla superficie delle Scritture, cosicché anche le persone più semplici le possano capire (Agostino di Ippona). Gesù parla alla mente degli umili, siano essi colti o ignoranti, perché «Dio non ha preferenza di persone».
Il testo di 2 Pietro 3,16 citato sopra fa riflettere. L’ignoranza è una brutta bestia, che può condurre alla perdita della fede soprattutto quando si accompagna, come spesso avviene, a presunzione. Ecco un discepolo di cultura media, che vuole saperne di più ad esempio sulla formazione del canone della Bibbia. Qualcuno che ne sa più di lui gli consiglia la lettura di uno dei più importanti studi attualmente esistenti sul tema, un testo al di sopra delle parti confessionali, un testo che per serietà e obiettività viene accolto ai massimi livelli dell’erudizione biblica. Ma alla fine della lettura (se mai è stata fatta) la reazione di quel tale è blanda e banale: «Ma sì, in fondo sono tutti scrittori in disaccordo gli uni con gli altri...». È proprio vero che alcuni non sanno apprezzare neppure l’oro. In questa risposta non c’è solo ignoranza. C’è anche presunzione. Quel tale è sul punto di perdere la fede. E la perde.
Ecco un altro discepolo di cultura inferiore alla media, cosa che di per sé non è certo una colpa. Non è colpa sua se il suo livello di scolarizzazione gli impedisce per esempio di ragionare di filosofia. Non è colpa sua se anche quando ragiona sul testo biblico stenta ad analizzare criticamente un brano in italiano o non sa analizzarlo nel greco biblico. Dovrebbe, appunto, eliminare gradualmente l’ignoranza con lo studio biblico. Inoltre, conoscendo i propri limiti, dovrebbe attenersi alle cose necessarie alla salvezza, quelle che stanno alla superficie delle Scritture. Dovrebbe accontentarsi di imitare Maria di Betania che, seduta ai piedi di Gesù, ne ascoltava felice l’insegnamento. Invece, purtroppo, un’immagine deformata di se stesso lo induce a ritenersi un grande insegnante e un acuto ricercatore: sfoggia una scialba gnosi misteriosofica, filosofeggia sul nulla come principio ontologico del tutto, discetta sulla cristologia gnostica hegeliana, insegue vacue elucubrazioni, inventa sofismi più vuoti di un palloncino colorato pieno d’aria. Il destino di un tal filosofo coincide purtroppo con quello della rana che, gonfiandosi, pretendeva di farsi grande come il bove. È il tragico esito dell’ignoranza presuntuosa, cioè la perdita della fede, il suicidio spirituale.
Una persona così, quasi del tutto priva di studi, potrebbe salvarsi imparando a fidarsi e a confidare umilissimamente nella Persona dell’unico Gran Maestro che gli parla nel Vangelo, perché il Vangelo è rivelato «ai piccoli», cioè agli umili di cuore, ma è «nascosto ai savi e agli intelligenti», vale a dire ai presuntuosi. Per chi è privo di studi come per il colto la fede ubbidiente che salva sta proprio a portata di mano. La potenza del Vangelo di Gesù serve alla salvezza sia dei savi sia degli ignoranti.
Ma tutto questo non basta all’intellettuale improvvisato. La sua sicurezza intellettualoide lo spinge verso tipi di pseudosapienza (pseudofilosofia) lontana dalla saggezza che sta alla superficie della Bibbia. Egli è persona caratterialmente instabile, che vaga persino all’interno della Scrittura in cerca di inutili confronti e vacue comparazioni fra testi. Spesso l’ignoranza stessa non gli consente neppure di esprimere in modo lineare il proprio pensiero. La sua impreparazione gli impedisce purtroppo di rendersi conto dei propri limiti intellettuali, egli diventa imprudente e, per presunzione, varca continuamente quei limiti. Come l’improvvisato marinaio avventuratosi fuori del porto con un’esile barchetta in una giornata di mare grosso finisce per capovolgersi e annegare, così il discepolo che non conosce i propri limiti, più legge libri in modo acritico e più si lascia avviluppare nelle spire mortali di idee e concetti che lo trascinano a fondo, lontano dall’approdo salvifico della fiducia in Gesù. Il destino morale del presuntuoso è la morte spirituale. Non è un caso che la Parola ispirata dica:
Prendete oltre a tutto ciò anche lo scudo della fede, col quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno (Ef. 6,16).
Vivete dunque nel Signore Gesù Cristo, come l''avete ricevuto, radicati e fondati in lui, saldi nella fede che vi è stata insegnata, rendendo grazie continuamente. Badate che nessuno vi irretisca con la filosofia e con vuoto inganno di tradizione umana, secondo gli elementi del mondo, e non secondo Cristo. In lui si trova tutta la pienezza della divinità in forma corporea, e voi partecipate della sua pienezza, di Lui che è il capo... (Col. 2,6 ss.; ed. Utet).
La realtà della «pienezza» (gr.: pleroma) in Cristo Gesù è fondamentale nel Vangelo. In lui trovo e godo di tale «pienezza» da ogni punto di vista morale, spirituale, fisico. Un discepolo che conosce Dio – o meglio, che è conosciuto da lui (Gal. 4,9) – e che torna agli «elementi del mondo», alla deludente tradizione filosofica umana, compie il percorso del gambero. Mediante Cristo, invece, il credente ha qui-e-ora ogni cosa pienamente, perché «partecipa della pienezza» del Cristo. Non basta questa «pienezza»? Purtroppo talvolta l’instabile presuntuoso può arrivare a sminuire la «profondità della ricchezza e della sapienza e della conoscenza di Dio», tornando alle umane filosofie o anche semplicemente banalizzando il contenuto dell’Evangelo. Sono modi sicuri per suicidarsi.
Anche i discepoli non devono mai sottovalutare l’attraente forza negativa delle sirene che levano il loro canto suadente per trascinarli lontano dalle molteplici benedizioni spirituali in Cristo (Ef. 1,3), lontani dalla santità e dall’irreprensibilità nell’amore (Ef. 1,4), lontani dall’adozione come figli amati da Dio (Ef. 1,5), lontani dalla grazia che il Padre ci ha donato nel suo amato Gesù (Ef. 1,6), lontani dalla redenzione e dal perdono provveduti dal Cristo (Ef. 1,7), lontani dalla sapienza, dall’intelligenza e dalla conoscenza del suo progetto buono (Ef. 1,8-9), lontani dal suo Spirito che incoraggia e sostiene (Ef. 1,13-14), portati alla deriva per essere «trascinati e sballottati qua e là» da ogni libro che si legge (Ef. 4,14) forse senza avere la capacità critica di affrontarne la lettura, di esaminarlo, valutarlo, afferrarne la tesi di fondo e vagliare l’idea che soggiace a quella tesi alla luce della Parola. È troppo facile dire «ma io confronto tutto con la Bibbia», perché il confronto può essere anche banale o superficiale, soprattutto se a farlo è l’ignorante o l’instabile o il presuntuoso.
Come il vento di scirocco annebbia la mente e ammollisce gli arti, così l’ignorante presuntuoso si muove, anche all’interno del testo biblico, con moti fumosi e scoordinati. Per tornare all’immagine del fascinoso richiamo delle sirene, valga la lezione impartitaci da Ulisse. Quando la sua nave giunse nei pressi di quei mostri marini, egli volle udirne il richiamo; però, prima rese sordi i compagni facendo loro tappare le orecchie con la cera, e poi si fece legare stretto con funi robuste all’albero della nave. Il prudentissimo Ulisse prima salvò la vita dei suoi marinai e poi, sfinito, superò la prova solo perché era vincolato all’albero maestro! Ma noi, conosciamo e riconosciamo i nostri limiti? Siamo fortissimamente attaccati all’«ancora dell’anima, sicura e ferma» in Cristo Gesù?
In un bel capitolo del suo Vita di Gesù Cristo (1941), il biblista G. Ricciotti esamina, confutandole, tutte le interpretazioni razionaliste della vita di Gesù. Egli scrive con competenza filologica e filosofica, per concludere che «la soluzione del problema Gesù» non l’hanno trovata né i mitologi né gli escatologisti, ma solo coloro che si accostano alla narrazione evangelica con purezza e umiltà di cuore, siano essi ignoranti o colti.
In genere si può notare che i veri grandi biblisti mostrano fedeltà al testo biblico stesso e umiltà nelle conclusioni. L’ignorante intellettualoide tende invece a essere saccente e dogmatico. L’esito finale prodotto da ignoranza, instabilità e intellettualismo è la perdita inesorabile della fede fiduciosa e l’accoglienza di uno spirito che va dubitando di tutto senza trovare posa né gioia. Accade così che chi solo ieri passava per un provetto insegnante, oggi si impicca volentieri all’albero dello scetticismo. Chi solo ieri insegnava il Vangelo con gioia e semplicità di cuore, oggi ha perso l’una e l’altra. Non è forse proprio così che si rischia seriamente di perdere la fede, bruciata dal dubbio scettico? Il dubbio scettico (sistemico) è il dubbio radicale, che porta a dubitare di ogni cosa, al limite anche di se stessi e della realtà del proprio esistere. Invece il dubbio metodologico affronta e risolve la questione con metodo, la studia con strumenti adatti, approfondendola con amore e preghiera, alla luce della Saggezza di Dio rivelata in Gesù. Il dubbio scettico non trova mai l’approdo (Giac. 1,6 ss.). Il dubbio metodologico confida e risolve con pazienza e gioia. Il primo è mortale per la fede. Il secondo la nutre e la purifica.
In questa sezione si sono utilizzate apposta alcune immagini marinaresche: l’inesperto marinaio imprudente, e Ulisse che vuole udire le sirene. Il valore della fede e della coscienza buona è inestimabile. Chi lo mette a rischio e l’abbandona, dice la Scrittura, «fa naufragio quanto alla fede» (1 Tim. 1,19); naufraga perché ha perduto la fede nel Dio della fede, e muore perché
senza fede è impossibile piacere a Dio; poiché chi si accosta a Dio deve credere che egli è, e che è il rimuneratore di quelli che lo cercano (Ebr. 11,6).
4 / Amore per i parenti maggiore dell’amore verso Dio
Un ulteriore motivo di perdita della fede è l’amore sviscerato per i parenti stretti. Chiariamo subito che questo genere di affetto non solo è accolto dal pensiero divino, ma è pure raccomandato, bisogna amare i propri parenti. Vale però la regola nobile: non li si deve amare più del Signore:
Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; e chi ama figliolo o figliola più di me, non è degno di me; e chi non prende la sua croce e non viene dietro a me, non è degno di me (Mt. 10,37-38).
Gesù stabilisce un vincolo parentale incommensurabilmente superiore e più stretto della parentela di «carne e sangue». Il «diritto» di diventare figli di Dio lo si acquisisce con la rinascita d’acqua e di Spirito, cioè con il battesimo in Cristo. È questa la parentela nuova stabilita nello Spirito del Signore. Questo vincolo è determinato dal sacrificio amorevole di Cristo stesso e dall’ubbidienza alla volontà di Dio:
E Gesù guardati in giro coloro che gli sedevano intorno, disse: Ecco mia madre e i miei fratelli! Chiunque avrà fatta la volontà di Dio, mi è fratello, sorella e madre (Mc. 3,34-35).
È giusto voler bene ai propri parenti, ma non quando essi ci chiedono cose in contrasto con la volontà di Dio. Ci sono purtroppo anche credenti strani. La loro stranezza sta nel fatto che si lagnano continuamente dei loro parenti. Dicono di avere figli reprobi, oppure padri snaturati, o madri che non li comprendono. La vita di questi credenti sembra una croce che portano non solo dal tribunale al Golgota, come fece Gesù, ma un peso che tengono sulle spalle tutti i santi giorni della loro esistenza. Qualche sorella consiglia loro pazienza e dolcezza nelle prove. Non basta. Qualcun altro li incoraggia. Non basta. Altri li consiglia di nutrire comunque sempre grande rispetto per i parenti, pur continuando a ubbidire al Padre. Non basta. Qualcun altro ricorda loro di persistere nel dare buon esempio anche ai parenti. Ma non basta. La loro croce non si alleggerisce. Anzi, sembra farsi di piombo. E l’amore che viene loro dato non basta mai…
Poi un giorno ti accorgi che quel padre snaturato è lo stesso che in un momento di difficoltà ha soccorso il figlio, cioè il lagnoso discepolo. Ti accorgi che quel figlio degenere ha messo su famiglia e si comporta almeno da onesto pagano. Quella madre svergognata è la stessa che in un momento di dolore è stata accanto alla figlia, cioè la lamentosa discepola. Strano! Ma forse non tanto.
Una fede lagnosa è finta. Una fede che è una lamentela continua è una fede persa. Infatti un giorno può accadere che quel padre o quella madre snaturati o quel figlio reprobo si riavvicinino al lagnoso discepolo; i loro contatti sociali si rinnovano, ed ecco che essi sembrano finalmente ritrovarsi, le difficoltà appaiono superate! E si sentono lieti e felici di essere di nuovo assieme. È una cosa buona. Ma ecco che il discepolo lagnoso o la discepola lamentosa, cioè quegli stessi che fino a ieri avevano lamentato il peso di quella croce insopportabile, oggi abbandonano la grazia di Dio, disertano la chiesa, si privano della comunione spirituale col sangue di Cristo (parentela alta), per ritrovarsi bellamente con quel padre snaturato, con quella madre svergognata, con quel figlio reprobo (parentela umana).
Ha ragione Gesù: chi ama i parenti più di me è indegno di me. «Indegno di me»: cioè indegno del mio amore, della mia stima, della mia grazia, della mia benedizione, della mia redenzione, del mio perdono, della mia pace, della mia riconciliazione, della mia eternità, della mia giustificazione, della mia dolcezza, della mia fiducia. Cioè, chi ama padre o madre o figlio o figlia più di me è indegno del sangue che ho versato per lui/lei.
5 / Basta non fare nulla
L’ozio non è soltanto il padre dei vizi, come recita l’antico adagio, ma è pure il padre dell’incredulità. Per perdere sicuramente la fede non occorre un grande sforzo, anzi per la verità basta non fare proprio nulla. Si rilegga con cura Ebrei 11 e ci si chieda francamente: se Noè non avesse faticato alla fabbrica dell’arca, avrebbe salvato se stesso e i suoi? Se Abramo non fosse partito «senza sapere dove andava», avrebbe mai raggiunto «la città che ha i veri fondamenti»? Se Sara non avesse contato sulla fedeltà di Dio, avrebbe mai avuto Isacco? Se Mosè non fosse stato tenuto nascosto, sarebbe potuto diventare il liberatore d’Israele? E se avesse «scelto» (11,25: la fede è scelta consapevole) i piaceri e la grandeur della corte faraonica invece dello squallore del deserto, che cosa sarebbe accaduto? Sarebbe stata «fede» la sua? Se la pagana Rahab non avesse accolto le spie in pace, sarebbe stata conquistata Gerico? Per non parlare di quelli che «per fede» furono perseguitati, patirono soprusi e offese, o furono uccisi.
Giustamente il Vangelo afferma che la fede priva di opere è morta. Perciò, per poterla sicuramente perdere, basta non fare proprio nulla. Certo, si va in chiesa per anni e anni, ma senza poi attuare per fede ciò che ci viene insegnato. Ci sono discepoli che per decenni non solo non hanno «accolto» in casa loro le spie di Gerico, ma non hanno mai invitato qualcuno neppure per un caffè, tanto meno per una conversazione sul Vangelo. E se mai qualche volta l’hanno fatto, poi hanno continuato a cullarsi sugli allori pensando che loro lo avevano fatto. Come si può dire di credere in Cristo se si entra, ci si siede e ci si alza per andarsene dalla chiesa, senza chiedersi mai neppure una volta: che cosa posso fare per aiutare l’opera del Signore in questo mondo? È davvero positivo l’esempio che sto dando comportandomi in questo modo pigro e egoista? È un comportamento davvero degno della «fede» insegnatami da Noè, da Sara, da Rahab? È il mio un modo di agire degno della fede appresa da Gesù? Alcuni discepoli si abituano talmente agli orari delle messe che basta suggerire un piccolo cambiamento di orario, magari per favorire la presenza di tutti, che subito sembrano afferrati non dallo zelo per le cose di Dio, ma dalle coliche renali. Altri sembrano non sapere come parlare dell’evangelo, però sanno progettare a dovere le proprie vacanze, calcolando quel che faranno in ogni giorno di vacanza dell’anno. Quanta fede in tutto questo!
Molti smettono del tutto di testimoniare la Parola di Dio. Non hanno tempo. Non trovano il tempo neppure quando vanno in pensione. Altri si scoraggiano al primo colpo di vento, non evangelizzano più; però hanno il tempo per informarsi e appassionarsi ai problemi sociali del momento e ne discutono da maestri. Molti hanno praticamente smesso di leggere/studiare la Scrittura. Ma la fede non è forse radicata proprio sulle promesse e certezze della Scrittura ispirata dallo Spirito di Dio? Senza questa base, la fede muore. Altri, cui era stato insegnato come approfondirsi nello studio della Parola spirituale del Signore, non l’hanno fatto forse per ragioni di tempo; però hanno trovato il tempo per istruirsi e avvelenarsi con le «favore profane e da vecchie» , i teoremi del neognosticismo, le fantasie dello spiritualismo ateistico, le invenzioni teosofiche o le baggianate del paganesimo antico rivisitate in chiave New-Age. A ciò corrispondono altrettanti modi per barattare l’azione della «fede santissima» con l’ozio del non far nulla.
Il Migliore in Assoluto
Le modalità per poter perdere la fede e gli esempi di incredulità potrebbero essere moltiplicati, ma sarebbe inutile. Raccomandare fiducia e opere buone a chi ha smesso di confidare in Dio, cioè di amare Dio, è come dover suggerire al fidanzato quante volte debba portare rose rosse all’amata o quanto tempo debba trascorrere con lei. Una fede priva di quelle opere «preparate da Dio affinché le pratichiamo» è una fede suicida. Al contrario di quel che molti pensano, e di come fanno, non siamo noi a dover inventare le opere buone; esse sono lì, pronte per essere solo attuate. Ma restano perfettamente invisibili a una fede (fede?) che ha rinunciato alla passione, allo zelo, all''amore, al rischio, ha rinunciato cioè al proprio spirito vitale. Rileggendo ancora Ebrei 11, ci si accorge invece che la genuina fede fiduciosa è la sola capace di vedere ciò che è invisibile.
Qui termina – ma certo non finisce qui… – questo manualetto per increduli. È folle? È paradossale? Allora rientra nella normalità, visto che il mondo sta impazzendo, tanto per cambiare. Gli alberi hanno rami e chioma interrati e gli uccelli fanno i nidi in mezzo alle radici in aria. Le acque dei fiumi scorrono placide verso i monti. Parafrasando Shakesperare nel Sogno di una notte di mezza estate, l’occhio serve ormai per udire e l’orecchio per vedere. Si perdoni perciò la anormalità di chi ancora ritiene Cristo Gesù in assoluto l’uomo migliore, il più sobrio, il più sano e il più degno di fede che sia mai apparso sulla terra. «Parlo come a persone intelligenti; giudicate voi stessi quello che dico».
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