Dio non ha bisogno del nostro dolore per concederci il "sospirato paradiso" (mantengo la Sua immagine di beatitudine). Non sono infatti il dolore e le sofferenze nostri che ci aprono la via verso la salvezza spirituale, bensì il dolore affrontato e sofferto da Gesù, in un gesto unico e irripetibile d'amore volontario e ben cosciente della condizione morale/spirituale (e anche fisica) della persona. Il profeta Isaia (53,1 ss.) descrive Gesù come uomo di dolore, familiare col patimento... Maltrattato, egli umiliò sé stesso e, come la pecora muta nelle mani di chi la tosa, non aprì la bocca: è questo il dolore che permette l'accesso all'amore che Dio tuttora rivolge agli esseri umani, a Lei, alla Sua cara nonna, a tutti indistintamente. Giovanni apostolo, riprendendo questa realtà, scrive che Dio ha amato il mondo a tal punto da dare il Suo unigenito Figliolo a una morte infamante affinché chi impara ad amare Cristo Gesù non perisca, ma abbia vita piena (3,16). In nessun brano del Vangelo è scritto che Dio ha bisogno delle sofferenze fisiche nostre, quasi fossero un pedaggio per consentirci il "paradiso". Il Vangelo parla piuttosto del dono gratuito della salvezza per tutti in Cristo Gesù (questo è il senso del perdono ottenuto da Gesù).
Quanto alla Sua seconda domanda, connessa alla prima, vorremmo anzitutto riconoscere la sensibilità con cui Lei tocca un argomento oggi molto dibattuto e sul quale ci limitiamo a qualche spunto di riflessione.
Non è per nulla peccaminoso desiderare una morte dignitosa per una persona amata che vediamo soffrire inutilmente. Anzi è forse doveroso. Se desideriamo, per noi stessi e per il prossimo, una vita dignitosa, non si comprende per quale ragione non si dovrebbe poter avere anche una morte dignitosa.
Ma ciò implica cambiamenti profondi a vari livelli. Occorre, ad esempio, una medicina più umana e umanizzata, che affermi sì la tecnica e la specializzazione, ma senza dimenticare la persona! Senza che i reparti di rianimazione diventino centri meccanici di conservazione artificiale della vita. È sempre più evidente che occorre considerare oltre che gli aspetti tecnici della medicina anche le necessità psichiche del paziente, le quali sono da molti valutate come primarie nell’affrontare una patologia. Alcuni cambiamenti si sono avuti: oggi, ad esempio, è più facile rispetto a qualche anno fa curare il malato terminale con terapie antidolore.
Il controllo dei processi vitali appare sempre più in mano dell’uomo e fa quindi appello alla sua responsabilità. Occorre riflettere, ripensare questa responsabilità. Già a proposito dell’inizio della vita umana si è avuta una notevole trasformazione della coscienza dei valori e delle norme. Al punto che chi aveva respinto la regolazione “artificiale” delle nascite come negazione della sovranità di Dio sulla vita, si è poi dovuto accorgere che anche l’inizio della vita umana è stato affidato da Dio alla nostra responsabilità (diversa dall’arbitrio).
Per chi impara dal Vangelo, la vita presente è, per così dire, anticamera di una vita "con Cristo" (l'espressione è di Paolo apostolo, Fil. 1,23); per chi nutre la fiducia che non si muore nell’assurdo nulla, per chi impara che si può vivere e morire "in Cristo", per questa persona la morte, pur conservando tutto il suo squallore, è momento di passaggio. Anche da questo punto di vista, proprio chi crede nella continuità, non dovrebbe aggrapparsi a questa vita come all'ultima spiaggia. Anche il credente, proprio perché credente, può evitare ogni forma di accanimento terapeutico e abbandonarsi al trapasso accettandolo consapevolmente.
Se il morire non è solo un tramonto senza senso, ma un ritorno a casa, allora forse si può dire che:
a. il medico non dovrebbe vedere il processo del morire e la stessa morte come una sconfitta personale, né andare via poco prima che essa avvenga, come la pratica clinica gli suggerisce; occorre fare del tutto per guarire il malato, ma non per rimandare in modo meccanico, spesso tra tormenti intollerabili, la morte di qualche ora, giorno o anno.
b. Occorre distinguere tra ciò che tecnicamente è possibile, e ciò che ha senso ai fini del ristabilimento della intera persona umana. Una operazione chirurgica o una terapia intensiva non possono esser fini a se stesse. Una terapia ha senso fin tanto che non porta solo a un’esistenza vegetativa, ma restituisce le funzioni fisiche e ristabilisce l’intera persona umana.
c. Il malato dovrebbe conservare il diritto di rifiutare una cura che gli prolunghi la vita che non è tale ma puro stato vegetativo. Il malato, inoltre, non va relegato, posto in isolamento, ma va circondato dagli affetti familiari (l’eutanasia più importante! Forse nello sguardo di Sua nonna c’era anche gratitudine…). Il compito verso il moribondo non si esaurisce nelle sole misure mediche, ma a queste andrebbe associato l’interessamento umano di medici, infermieri, parenti, amici. Quale enorme differenza possono fare piccole cose come una federa fresca per il cuscino, una diversa posizione del corpo, un infermiere premuroso, un ambiente tranquillo…
Dunque è facile morire? Oppure: è più facile morire per chi crede? Proprio no. Neppure Gesù è morto come uno stoico, senza soffrire, ma è spirato tra i tormenti, gridando a Dio il proprio abbandono. Ha conosciuto e abbracciato la nostra stessa paura, il nostro stesso tremore. E l’ha fatto per amore, per offrirci il Suo dono gratuito, il Suo modo di valutare la vita, morte, il morire: chi vuole vivere, deve prima morire. Con dignità. Ma qui il discorso continua…