Gentile Lettore, grazie per
questa domanda dolorosa. Giustamente dolorosa. Ci sono atti che dovrebbero
generare vergogna profonda. La vita dovrebbe arrestarsi, il silenzio prevalere
sulle parole, anche le più alte. Una vergogna e un timore amari dovrebbero
impadronirsi di noi, anche se noi stessi non fossimo personalmente e
direttamente implicati in quegli atti, e anzi li condannassimo, come li
condanniamo. Vergognarci fa bene. Ci aiuta a sentirci meno sicuri delle nostre
idee - anche quelle religiose. Ci aiuta a diventare più comprensivi e tolleranti
anche verso le idee più strane o estranee alla nostra sensibilità religiosa. Ci
consente di guardare con comprensione, con interesse, a quanti credono e si
affidano a cose che noi riteniamo perfettamente astruse. Ci permette di
ripulirci, per qualche momento almeno, di quella spocchia d’infallibilità che
spesso fa del credente non solo un antipatico, ma anche un essere pericoloso. La
vergogna, poi, non impedisce il dialogo fra religioni diverse, fra sentimenti
diversi, fra modi diversi di credere. Anzi. Una vergogna risanante, per
iniziare, potrebbe forse giovare.
Come negare che proprio in nome di Dio sono state attuate le guerre più
ignominiose, gli atti più nefandi? Il genocidio di otto milioni di Indios in
America (XV-XVI sec.); le guerre “di religione” che insanguinarono l’Europa del
XVI secolo. Lo sterminio di sei milioni di Ebrei nel secolo scorso. L’Irlanda,
per anni teatro di lotte e violenze. La storia non si cancella, scritta com’è
nei fatti abominevoli. Essa è uno dei due dittatori (l’altro è la parola di Dio)
dinanzi ai quali tutti dobbiamo inchinarci muti, senza neppure osare chiedere
perdono. È concesso piangere e battersi il petto. Ma andrebbe fatto «in
segreto», come dice Gesù.
Occorre, forse, riconsiderare con coraggio una premessa fondante. Uccisione e
violenza (ogni forma di violenza: non solo fisica, ma anche psicologica,
“religiosa”) debbono costituire per il credente – per qualunque credente,
qualunque siano forme e modi del suo credere – un abominio, un peccato della
peggiore specie, un tabù. Uccidere, anche in nome di Dio, è azione blasfema che
esprime la massima contraddizione possibile: Dio è vita, mentre l’uccisione è un
atto che impone la non-vita; la religione/religiosità, in ogni sua forma,
esprime un anelito alla vita, mentre l’uccisione è un determinare la morte di
uno che differisce da me per ciò che crede o per come adora Dio o ancora per
come vive la sua religiosità.
Si uccide in nome di Dio forse pensando di “adoperare” Dio come scusante comoda,
e potente, per qualunque efferatezza si voglia commettere: “Dio lo vuole!”;
oppure: “Dio è con noi!”. Si uccide forse perché si teme il confronto, si ha
paura della comparazione: perciò la si elimina dalla faccia della terra.
Lei dice: uccidere in nome della religione, uccidere in nome di Dio. Eppure
“religione” e “Dio” non sono necessariamente la stessa “cosa”. Religione e Dio
possono non coincidere. Anzi spesso non coincidono affatto. Religione è
(dovrebbe essere) espressione pratica della spiritualità dell’uomo. Ma Dio
rimane pur sempre al di là di ogni espressione religiosa dell’uomo, anche della
più alta. Dio non è, e non può mai essere, incapsulato, inglobato, dalla
religione. Da nessuna religione. Nessuna religione “possiede” Dio nel senso di
potersi ritenere “proprietaria” di Dio. La religione che “si appropria” di Dio
si trova in mano un feticcio inutile, un totem vuoto (ma in grado di fare quali
e quanti danni!). La religione può divenire buona alleata di grossi interessi
economici nazionali e/o internazionali. Dio no.
Gli stessi apostoli – che dal loro discepolato non guadagnarono nulla, se non il
martirio – furono tentati di fare a Gesù proposte indecenti. Un villaggio di
Samaritani, particolarmente invisi agli Ebrei, rifiuta di accogliere Gesù e i
discepoli. Al che Giacomo e Giovanni chiedono: «Signore, vuoi che ordiniamo al
fuoco di scendere dal cielo e di distruggerli?». Gesù li rimprovera con fermezza
e si avvia verso un altro villaggio. Il rispetto di Gesù anche verso chi lo
rifiuta è insegnato dal suo comportamento.
Al momento del suo arresto, Pietro estrae la spada e taglia l’orecchio di un
certo Malco. Gesù con calma riattacca l’organo offeso e fa capire a Pietro (e a
noi) tutta la stoltezza della violenza. Toccherà a Pietro capire per primo che
davanti a Dio non c’è riguardo alla qualità delle persone, e che in qualunque
luogo chi teme Dio e opera giustamente è accetto al Signore.
Paolo apostolo (che uccise per ragioni religiose!) insegnerà, pentito, che Dio
vuole che tutti gli uomini siano salvati. Gesù stesso ha dato se stesso in un
gesto estremo d’amore per tutti. Anche per chi lo crocifiggeva per ragioni
religiose.
Ma il Vangelo non è bastato, e non basta, a fermare la mano dell'uomo che si
alza contro il prossimo. Il «prossimo»: unica immagine vera dell’unico Dio che
Vive. In nome di Dio si ammazza l’immagine di Dio. Questa è la religiosissima
schizofrenia.
La causa scatenante le guerre, tuttavia, non è Dio né la religione, bensì
l’abuso di Dio e della religione per coprire passioni, invidie, interessi. Forse
Giacomo coglie nel segno quando descrive così la situazione soggiacente a tante
violenze: «Da dove vengono le guerre e le contese fra voi? Non sono forse di
qui, dalle vostre passioni che combattono nelle vostre membra? Voi bramate e non
avete; uccidete e invidiate e non potete ottenere; guerreggiate e contendete;
non avete perché non domandate. Domandate e non ricevete perché domandate male
al solo fine di sperperare nelle vostre passioni. Adùlteri, non sapete che
l’amicizia del mondo è nemica di Dio? Chi dunque vuole essere amico del mondo si
costituisce nemico di Dio» (Giacomo 4).
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